lunedì 2 giugno 2014

"Non dirmi che hai paura"



 
Oggi vi voglio parlare della storia di una ragazza giovane nata e cresciuta in un mondo a noi lontano,
un mondo che non conosciamo e che forse non vogliamo conoscere.
Una “scura”, come mio figlio, teneramente chiamava i suoi compagni di classe, quando per un po’ frequentò la scuola dell’infanzia di Addis.
Voglio raccontarvi la storia di una ragazza dalle gambe di gazzella e il cuore di leone.
Una ragazza che aveva in se il coraggio e l’orgoglio di essere e la volontà di volere e dovere essere.
Una ragazza dal viso buono e sincero.

Oggi vi voglio parlare di una favola, di una favola che è una storia vera, di una favola alla rovescia, che non finisce con il classico “ e vissero tutti felici e contenti”, ma finisce in fondo al mediterraneo in burrasca, finisce con la disperata lotta per la sopravvivenza di una ragazza, che poteva essere e che era mia sorella, la mia amica del cuore, la persona che non ho mai incontrato e  conosciuto e che invece avrei voluto incontrare e conoscere. Per tutto questo la storia che vi sto racontando è una favola, perché la protagonista della storia è così nobile d'animo da essere una principessa.

Voglio parlarvi di una ragazza nata e cresciuta nell’inferno della Somalia di oggi, nata e cresciuta nell’inferno dentro l’inferno che è la Mogadiscio di oggi.
Voglio parlarvi di una storia di eroica voglia di vivere, volontà di riscattarsi e riscattare, di una storia che da il senso a molte storie che ci arrivano dal Corno d’Africa, portate a noi dai barconi e dalle carrette del mare carichi di umanità disperata alla ricerca di un sogno.
Quella di cui voglio parlarvi è la storia di Samia, una storia che ci fa sentire piccoli, forse anche inutili, certamente chiusi nel nostro ristretto mondo di egoismo e di paura dell’oggi e del domani e di tutto quello che ci ricorda che la vita non è uguale per tutti, che ci ricorda che le nostre ansie e le nostre preoccupazioni possono sparire di fronte a certe vite.
La storia di Samia non può lasciarci indifferenti, non può non provocare in noi un cambiamento, non può non scavare un solco nel mare d’indifferenza nel quale affoghiamo giorno dopo giorno.
La storia di Samia apre uno sguardo e ci proietta verso un mondo che ha bisogno di tutti, che ha bisogno di tutti noi che pensiamo che non possiamo lasciare che il mondo sia quello che viviamo oggi, e che ogni giorno con i nostri piccoli e grandi gesti quotidiani, con le nostre parole semplici, con le righe scomposte o importanti che riusciamo a scrivere proviamo a spiegare che un mondo diverso non solo è possibile ma deve essere.

Samia Yusuf Omar, questo è il nome completo della ragazza che voglio farvi conoscere oggi, è la più piccola dei sei figli di una famiglia di Mogadiscio, nata il 30 aprile del 1991.
Suo padre, Omar Yusuf, fu ucciso da un colpo di pistola al mercato di Bakara, il più grande di Mogadiscio, dove lavorava.
Il mese dopo la morte del padre, Samia lasciò la scuola per occuparsi dei fratelli al posto della madre che dovette iniziare a lavorare.
Fu in quel periodo che Samia scopri la sua passione per la corsa, che dalle parti del corno d’Africa è vissuta fondamentalmente come strumento di riscatto personale, liberazione e di emancipazione da una condizione sociale ed economica insostenibile per la maggior parte dei suoi abitanti.
Ma allenarsi a Mogadiscio non era facile per nessuno e specialmente per una ragazza.
La Somalia è una nazione senza nazione, distrutta, inesistente, dove domina la legge del più forte, dove dominano gli Shabaab, gruppi di terroristi legati ad Al Qaeda.
A Mogadiscio non ci sono strutture sportive e Samia deve allenarsi correndo per strada, ma una donna, una ragazza atleta da quelle parti non è ben vista: i somali considerano “rovinate” le ragazze che praticano sport, ascoltano o fanno musica, e che indossano pantaloncini.
Samia quando correva e si allenava veniva spesso ingiuriata, minacciata e addirittura una volta fu anche arrestata; anche se lei si allenava indossando le maniche lunghe, i pantaloni della tuta e una sciarpa sulla testa, sotto il sole di Mogadiscio.
Nonostante tutto nel maggio del 2008, a diciassette anni, Samia riuscì a partecipare alla gara dei 100 metri ai Campionati africani di atletica leggera.
Concluse la gara in ultima posizione, ma fu comunque chiamata quello stesso anno a rappresentare la Somalia alle Olimpiadi di Pechino, lei e un altro atleta.
Intervistata all’arrivo a Pechino dichiarò «Non mi importa se vinco. Ma sono felice di rappresentare il mio paese in questo grande evento. Non credo che faccia la differenza se vinco a questi o ai prossimi Giochi Olimpici»
Il 19 agosto Samia Yusuf Omar corse i 200 metri, fu uno dei momenti più belli di quei Giochi.
Lei corse in seconda corsia, accanto ad atlete celebri, ricche, vestite con gli ultimi ritrovati della scienza nel campo degli indumenti sportivi, tutte muscoli, allenate e nutrite per correre, Samia corse accanto a quelle che erano macchine costruite scientemente per correre e per vincere.
Samia, invece era magra, anzi magrissima, era una gazzella.
Indossava le scarpe che gli aveva prestato un’atleta della squadra sudanese, i pantaloncini sotto il ginocchio, la maglietta bianca lavata con la cenere, come si usa da quelle parti, che gli aveva dato la sua mamma, e poi aveva una fascia bianca in testa che suo padre gli aveva dato prima di essere ucciso.
Le gambe esili, i polpacci sottili, lo sguardo deciso di chi vuole farcela. Lei era diversa.

Samia partì assieme alle altre atlete allo sparo dello starter, e corse con tutta la sua anima, arrivò ultima, ma la sua corsa fu commovente, fu incoraggiata e applaudita dal pubblico dall’inizio alla fine.
Al termine della gara l’attenzione fu tutta per lei, fu intervistata subito dopo la vincitrice: «Sono felice», disse; «Le persone mi hanno incoraggiato con il tifo, è stato molto bello. Ma mi sarebbe piaciuto essere applaudita per aver vinto, e non perché avevo bisogno di incoraggiamento. Farò del mio meglio per non essere ultima, vincerò la prossima volta, vincerò le olimpiadi di Londra».

Ritornò in patria, pensando di potere riprendere ad allenarsi per il suo sogno: vincere le olimpiadi di Londra 2012.
Ma al suo ritorno tutto era cambiato ed era peggio di prima; peggio di quando lei non era nessuno, peggio di prima di quei 200 metri corsi nello Stadio Olimpico di Pechino.
Adesso lei era diventata un simbolo, il simbolo della voglia di riscatto delle ragazze e delle donne somale e per gli estremisti islamici era diventata un simbolo minaccioso, una speranza da estirpare prima che mettesse radici, il simbolo stesso del progresso e della civiltà.

Samia, fu così costretta a rifugiarsi in Etiopia sperando da li di potere raggiungere l’Europa, dove continuare a d allenarsi per le Olimpiadi di Londra 2012. Dopo due mesi, non riuscendo ad avere dal Mogadiscio nessun tipo di documento che gli riconoscesse lo status di rifugiato, Samia lasciò Addis Abeba per intraprendere assieme ad altri, quello che io considero il viaggio attraverso l'inferno: la traversata del Sudan e del deserto del Sahara, per arrivare in Libia ed imbarcarsi alla volta dell'Italia, e realizzare un sogno che dalle coste libiche puoi quasi toccare se allunghi bene una mano.

Nel frattempo, la nostra società avvezza a digerire e dimenticare tutto, si dimenticò anche dell’esistenza della gazzella nera che era arrivata ultima nei 200 metri di Pechino e che aveva promesso di vincere le Olimpiadi di Londra. Di Samia si perse presto la memoria.

Fu un grande atleta di origine somala che alle olimpiadi di Londra la ricordò e diede lo spunto a tanti scrittori e giornalisti per riprendere a capire cosa fosse successo alla ragazziana di Mogadiscio.
Oggi possiamo dire che la sua storia la conosciamo grazie a questo grande atleta somalo del passato: Abdi Bile, medaglia d’oro nei 1500 metri ai Mondiali di Roma del 1987, che dopo il trionfo di Mo Farah (atleta britannico di origine somala) alle Olimpiadi di Londra, davanti a una platea riunita a Mogadiscio per ascoltare i membri del Comitato olimpico nazionale, disse: «Siamo felici per Mo, è il nostro orgoglio, ma non dimentichiamo Samia. Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar? La ragazza è morta… morta per raggiungere l’Occidente. Aveva preso una carretta del mare che dalla Libia l’avrebbe dovuta portare in Italia. Non ce l’ha fatta. Era un’atleta bravissima. Una splendida ragazza».

Ma io mi fermo qui, non voglio più raccontarvela io questa storia, voglio farvela raccontare da  uno bravo: Giuseppe Catozzella e dal suo libro che vi consiglio di leggere: “Non dirmi che hai paura”.

“Non dirmi che hai paura”, era quello che il papà di Samia gli diceva quando voleva incoraggiarla a fare qualcosa, e Samia crebbe senza paura, crebbe portando in se un grande cuore di leone africano dentro un esile fisico di gazzella.
Cuore che gli permise di superare tante delle sfide che la sua breve e triste vita gli impose, lei lottò, si battè ogni giorno della sua esistenza con la forza che i suoi anni pieni di speranza gli dava.
Samia non vinse mai una corsa importante, ma vinse tante sfide e andava avanti, riuscì a  superare ostacoli che nessuno di noi avrebbe mai saputo superare: supero tutti gli ostacoli tranne uno.
Il libro mi ha lasciato dentro un senso di vuoto, di impotenza, di tristezza: ma mi piace pensare che Samia sia stata sempre felice durante la sua vita, sempre felice di avere lanciato in avanti il suo cuore di leone e di averlo rincorso con le sue gambe di gazzella.
Io che ho visto e ho vissuto con gli “scuri”, rimpiango solo di non avergli potuto stringere la mano mentre il mare nero dell’anima occidentale gli impediva di respirare e gli riempiva i polmoni di sale e dirgli: “brava Samia non hai mai avuto paura”. Io non piangerò.
Ciao Samia.


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