mercoledì 9 novembre 2011

"Relax Yene Kongiu, you're in Africa."



Correva l'anno 2006, era esattamente il 4 ottobre e stavamo atterrando ad Addis Ababa. Mi ero trasferito dalla Gran Bretagna in Etiopia.
Dall’alto Addis sembrava infinita, si estendeva per una superficie incredibilmente vasta, erano almeno 10 minuti che la sorvolavamo e pareva non dovesse finire mai. Avevo molto sonno, per la prima volta non ero riuscito a dormire durante il volo, ed ero in preda ad uno stato di forte eccitazione da novità, cose che non si conciliano bene fra loro, era la prima volta che atterravo ad Addis Ababa, "Nuovo fiore" in italiano.
Erano le sette circa quando il Boeing 777 dell’Ethiopian Airlines, partito circa sei ore prima dall'aereoporto Leonardo da Vinci di Roma, concludeva il suo rumorosissimo atterraggio sull'unica pista dell'aereoporto.
I passeggeri avevano cominciato ad alzarsi e ad agitarsi molto prima che l’hostess desse il rompete le righe, desse il via libera, ciascuno aveva cominciato a tirare fuori dalle cappelliere le proprie cose, ad accendere i cellulari, a chiamare e a ricevere telefonate. Nell'atmosfera si respirava un misto di eccitazione, attesa e felicità. Molti di loro tornavano in patria dopo anni e anni.
Come il signore che era accanto a me, il quale tornava a casa dopo sette anni, così mi aveva detto durante la chiacchierata che avevamo fatto durante il viaggio. Veniva dalla Germania dove lavorava in un grande magazzino e dormiva in una stanza di pochi metri quadrati assieme ad altri 4 suoi connazionali. Durante quella chiacchierata mi aveva raccontato, con dovizia (da me non richiesta) di particolari vita, morte e miracoli del suo errare terreno. Io annuivo di tanto in tanto e gli davo ragione qualsiasi cosa dicesse, nella speranza che si stesse zitto.
Lui si era alzato fra i primi dopo l'atterraggio, e nel tirare fuori il suo bagaglio a mano dalla cappelliera mi aveva fatto cadere sulla testa una borsa di plastica con un po’ di cianfrusaglie dentro, fortunatamente non pesanti. Lo guardai con un certo disappunto, lui di ritorno mi guardo, sorrise disse : “icherta”.
Naturalmente non capii, il significato di quel suono.
Comunque risposi con un sorriso anch’io, che accompagnai con un sicilianissimo: "ma vafanculu." Quando voglio so essere gentile.
Attesi seduto al mio posto che si smaltisse un po’ l’allegra frenesia e il movimento degli arrivanti, poi con movimenti impacciati e abbastanza impediti dalla forte stanchezza, tirai fuori anch’io il mio "trolley" dalla cappelliera sopra di me.
Due giorni prima avevo lasciato Manchester alla volta di Palermo, da dove dopo un giorno, fatte le valigie, mi ero imbarcato per Addis, prima ed ero stanco. Mi aspettava un'altra puntata di questa avventura raminga che avevo scelto e vivevo con sempre crescente interesse ed entusiasmo.
Mentre aspettavo che venissero aperte le porte dell’aereo, posizionato a metà tra le  poltrone e il corridoio per evitare che altri mi sopravanzassero, pensavo: "adesso spero che il collega che deve venire a prendermi sia puntuale, così vado a scuola firmo la presa di servizio e poi mi vado a "sdivacare" sul letto dell’albergo, che mi hanno prenotato". Gia assaporavo il materasso.
Ma il mio sogno di riposo, il mio mirabolante piano d'attacco all'Africa nera, era destinato a fallire miseramente, il collega che doveva venire a prendermi, (scoprii dopo) non era lì: aveva dimenticato che doveva venire a prendermi e se ne era andato a scuola.
Io avevo preparato il mio approdo ad Addis, come è mio costume quando viaggio: cioè non avevo preparato nulla, come al solito non avevo pensato a niente.
Per quel che riguarda i contatti li ad Addis, avevo con me solo il numero di telefono della scuola e basta, per il resto ero morto di sonno e non avevo uno straccio d’idea di cosa fosse l’Africa e di cosa fosse Addis Ababa.
Sull'Africa, come tutti i bravi europei, portavo con me un pò di pregiudizi e nessuna informazione seria, a parte quelle di natura , paesaggistica o geografica.
Addirittura non nego che sapevo molto poco anche dell’Etiopia, a parte che era stata colonia indomita dell’Italia fascista e che mio nonno probabilmente era stato da quelle parti.
Mia nonna usava raccontarmi qualcosa sulla partecipazione alla guerra del marito, cioè il mio omonimo nonno paterno, mi diceva che era stato in abissinia, ma non mi aveva mai saputo dire, né lei né mio padre, se per abissinia intendevano l’Etiopia. Io credo fosse stato in Somalia, ma non so perchè ho questa sensazione, ma è solo una sensazione.
Spesso, in futuro, mentre mi muovevo per Addis, soprattutto in quelle zone della città come Piazza, Mercato, Case Incis, Case Popolari, zone che erano state costruite dagli italiani durante i quasi cinque anni di colonizzazione, mi chiedevo: chissà forse mio nonno ha messo i piedi negli stessi posti dove li sto mettendo io.
In passato con il termine abissinia si indicava quella parte del Corno d’Africa che comprendeva anche l’Eritrea e parte della Somalia. Anch'io identificavo l'abissinia con tutto il Corno d'Africa, niente di male era solo ignoranza.
Era il 4 ottobre 2006, lì era sul finire la stagione delle piogge per far posto alla stagione secca.
Nel giro di una mezz’ora dal momento dell'atterraggio, realizzai di essere abbastanza nei pasticci e di non avere la più pallida idea di cosa fare per risolverli. 
Perché, oltre al collega che non era venuto a prendermi, scoprii dopo un attesa di circa 20 minuti davanti al nastro che lentamente sputava i bagagli, che le mie valigie non erano arrivate e avevo quindi con me solo una piccola valigia con dentro un pò di biancheria, qualche maglietta lo spazzolino per i denti e niente di più.
Ero un viaggiatore orfano delle sue valigie, che contenevano quelle cose che in qualche modo ci danno un minimo di contatto con l'esistenza di provenienza e quindi una qualche sensazione di sicurezza.
Mentre aspettavo le valigie, man mano che i miei compagni di viaggio prendevano il loro bagaglio e andavano via felici e spediti, il numero delle persone in attesa diminuiva velocemente e una sensazione di panico tentava di incunearsi ed impadronirsi del mio stato d’animo.
Reagii, mi diedi un contegno e scacciai il panico per sostituirlo con la rabbia e il nervosismo, due stati d'animo che ritengo più dignitosi.
Meglio essere nervosi e arrabbiati che in preda al panico, pensai.
Dopo la vana attesa delle valigie,  uscii dalla zona del ritiro bagagli, misi il mio piccolo trolley sul nastro per il controllo a raggi x e quindi uscii nella hall, dove attraversai il corridoio composto da due ali di persone che attendevano l’arrivo dei loro parenti e dei loro amici arrivati con il volo da Londra, atterrato venti minuti dopo il mio.
Per un momento mi sentii un po’come se fossi atterrato all’aereoporto di Palermo, anche lì, quando si arriva, si viene accolti in trionfo dai parenti e dagli amici e si passa, guardando a destra e a manca alla ricerca di occhi conosciuti, attraverso lo stretto corridoio da loro, appunto, formato.
Ma non mi trovavo a Palermo, non si sentivano i classicissimi: "beddu me veni cca, ma mi pari cchiu siccu, gesuuuu chi si giarnu, ma manciasti prima ri partiri"?
Evedentemente non ero a Punta Raisi, ma al Bole International Airport di Addis.
Appena ebbi attraversato il corridoio umano composto dagli aspettanti, mi si parò davanti la vista della hall dell’aereoporto. Un immenso stanzone, con le uscite che stavano di fronte la zona arrivi.
Il marmo era l’elemento e il materiale prevalente nella hall.
Sul soffitto si vedevano i soliti intrecci di enormi tubi bianchi metallici impernati fra loro, che si trovano nei soffitti di quasi tutti gli aereoporti del mondo ed era come al solito altissimo.
Il pavimento sembrava pulito, e anch'esso ricoperto di marmo bianco.
Al centro della hall, stava buttato, come se fosse capitato lì per caso, un piccolo bar stile tucul etiope, mentre vicini alle vetrate che davano all'esterno c'erano gli stand d'accoglienza degli Hotel più importanti: Sheraton, Hilton etc, davanti ai quali sostavano annoiati ragazzi e ragazze con l'uniforme dei rispettivi hotel.
Quel marmo bianco era piazzato ovunque nella hall, e dava una forte luminosità all’insieme dell’ambiente. 
Ricordo che provai abbastanza stupore alla vista della hall dell'aereoporto, non so perché, forse mi aspettavo qualcosa di più africano, più vicino alla mia idea di africa. 
Guardandomi intorno notai un paio di giganteschi, ma giganteschi sul serio, poster/fotografia che pensolavano liberi dalle pareti della hall.
Erano poster enormi, sponsorizzati dall’ambasciata italiana di Addis, che celebravano la restituzione dell’Obelisco di Axum avvenuta in quel periodo e la rinnovata amicizia Italo/Etiope. 
Un paio di ragazze dall’andatura pigramente ciondolante, lava il pavimento della grande hall con secchi pieni di acqua sporca e strani stracci attaccati a storti  e nodosi bastoni di legno, un po’ di gente era seduta al bar chiacchierando e sorseggiando il loro “macchiato”. 
Ero uscito nella hall per cercare il collega che doveva venire a prendermi, per dirgli di aspettarmi perché dovevo fare la denuncia di smarrimento dei bagagli. 
Appena fuori, mi piazzai in una zona strategica della hall dell’aereoporto dalla quale pensavo di potere avere una buona e ampia visuale, e nella quale essere anch'io bene in vista per il collega.
Cominciai a cercare avidamente con lo sguardo la persona che mi doveva venire a prendere. Non sapevo che faccia avesse, però ero comunque certo ci saremmo riconosciuti, non c’erano molti bianchi in aeroporto quella mattina e soprattutto non c’erano italiani.
Attesi, guardai in ogni direzione: niente. Quindi mi spostai in un’altra zona della hall, ma ancora niente, nessuno mi notò, nessuno mi chiamò a parte i locali che mi guardavano come un animale raro.
“Cazzo – mi chiesi -  ma com’è possibile che non c'è nessuno, com'è possibile che lasciano uno che arriva qui per la prima volta in balia di se stesso”?
Passarono 10 minuti, avevo con me un pò di euro e mi venne in mente la cosa più logica da fare in questi frangenti, telefonare. Attaccati alle pareti vicini ai bagni c’erano le cabine telefoniche, ma come si usassero ovviamente non lo sapevo.
Da lontano presi ad osservare una di queste cabine, la guardavo come un pittore guarda di tanto in tanto l'opera che sta realizzando, staccandosi da essa e mettendosi a giusta distanza, la osservavo e la studiavo.
Mentre ero intento in questo difficile lavoro interpretativo, mi si accosto un ragazzo magro e vestito un pò alla buona, che evidentemente aveva notato il mio spaesamento, che con un bel sorriso mi chiese: “can I help?” .
"Yes – risposi  - I need to make a phone call, but I don’t have ethiopian money or an ethiopian phone card". Il tipo mi disse: "No problem, give me ten dollars or ten euro and I’ll sell you a phone card".
“Cazzo - esclamai fra me e me ringalluzzito e rincuorato – finalmente un pò di fortuna". Tirai fuori il deca e lo allungai all’habesha, il quale ringrazio, sorrise  e si dileguò velocemente sparendo dalla mia vista.
Felice del colpo di culo, con la mia bella carta telefonica in mano mi avvicinai con passo svelto e con baldanza caracollante verso uno dei telefoni pubblici presenti nella hall.
Osservai ancora per un po’ l’aggeggio, lessi le istruzioni, che dicevano le stesse cose che dicono le istruzioni per telefonare di ogni altro telefono pubblico di ogni altra nazione del mondo, quindi afferrai la cornetta e la sganciai.
Infilai la carta e cominciai a fare il numero. Ma dopo avere digitato le prime tre cifre, una voce metallica, dall’altro capo del telefono disse, prima in amarico e poi in inglese: “There is no credit left in your card, please hang up.”
“Vaffanculo e stravaffancullo, quel minchia di abissino mi ha fregato, "chi su manciassiru i cani a parti r'acqua"- esclamai ad alta voce e pensando nel contempo: "adesso che cazzo faccio”.
Ero nero dalla rabbia come il carbone, più stanco e più incazzato che mai. 
A questo punto è necessario che io vi dica  che sono un tipo che prende la vita molto facilmente, mi fido degli altri, della buona sorte e quando viaggio non pianifico nulla.
Mio zio (l’artista), una volta mi disse, che tutto quello che serve per viaggiare è: un passaporto in corso di validità e una bella carta di credito collegata ad un conto in banca con un po’ di soldi.
Ma non sempre funziona, e questo era proprio uno di quei casi.
Infatti avevo con me i documenti e la carta di credito, ma ero imprigionato in aereoporto.
La mia ricercata superficialità nel preparare i viaggi, questa volta mi aveva fregato.
Certo mi sarei potuto organizzare meglio sapendo che andavo in Africa.
Ma vaffanculo la colpa non era certo mia se il mio collega mi aveva piantato lì, non era colpa mia se quello si era preso l'impegno di venirmi a prendere in aeroporto e poi se lo era scordato, la verità,  è che con gli italiani non ci si può avere a che fare, sono semplicemente inaffidabili.
Mentre scacciavo da me i sensi di colpa, costruendo le mie incerte e traballanti morali provvisorie per giustificare il mio ingiustificabile atteggiamento e comportamento, una super idea si fece strada fra la nebbia che ormai avvolgeva i miei stremati pensieri: “adesso – pensai - il primo bianco che vedo gli chiedo aiuto, tra di noi scoloriti ci si aiuta no?”.
Che colpo di genio, il tipico uovo di Colombo, la trovata che non ti aspettavi, la soluzione che non mettevi a fuoco perchè troppo semplice per risolvere il problema, mentre la tua mente viaggiava alta, ancorchè in casi come questo dovrebbe strisciare rasoterra. Come avevo fatto a non pensarci prima?
Iniziai a girare per l’aereoporto, in lungo e in largo, lo perlustrai tutto, su e giù, a destra e a sinistra, e ……mannaggia e stramannaggia non c’era uno straccio di bianco in vista. Non c'era un solo fottuto viso pallido in quella bella mattina di sole ottobrino a Bole Airport. Che mattinata di merda.
Uscii fuori dalla hall, fuori dall’aereoporto. Chissà - pensai - magari il collega era rimasto ad aspettarmi fuori, oppure magari lì fuori avrei trovato qualche umano dalla pelle bianca. 
La scalinata dell'aereoporto era di colore chiaro anch'essa, oltre la scalinata bivaccavano alcuni tassisti accanto ai loro scassatissimi taxi gialli o blu.
I tassisti, molti di loro improvvisati, stavano li ad aspettare il colpo di fortuna per fare la giornata, masticando chat e chiacchierando fra loro, appena mi videro cominciarono a gesticolare e a chiamare: “ferengi, ferengi, taxi ferengi”? Li guardai e li ignorai.
Ero cosi rincoglionito che non mi venne in mente l’idea più facile ed efficace, diciamo il vero uovo di Colombo di quella situazione: cioè farmi portare a scuola o in ambasciata, da un taxi.
Avrei potuto pagare all'arrivo in euro: ma niente ero troppo rincoglionito dalla nottata insonne e dalla rabbia per la situazione per pensare in maniera adeguata.
La mia mente non produceva niente di logico, la stanchezza e il colpo di grazia delle valigie non arrivate, avevano reso il mio ellettroencefalogramma pressochè piatto.
Appena fuori dall'aeroporto, mi colpì subito una cosa, che per un attimo mi fece dimenticare le difficoltà del momento, il sole: la sua luce faceva troppa luce, era troppo intensa e troppo... come dire, colorata.
Stiedi un pò a guardare l'esterno dell'aeroporto con la città sullo sfondo.
Nel parcheggio, vi erano poche auto private e molti taxi con accanto o dentro i rispettivi autisti.
Tutto era fortemente risaltato ed esaltato dalla luce solare, cazzo sembrava che ogni oggetto fosse sotto un enorme faro. "Mah che strano", pensai:
Mi convinsi che doveva essere una mia impressione, dovuta alla stanchezza, certo se avessi saputo che ero abbastanza vicino l'equatore e a circa 2500 metri di altitudine avrei fatto prima a capire la ragione di questo sole che sembrava più sole che altrove, ma l'ignoranza si sa non aiuta molto a decifrare le cose.
Nel frattempo era passata oltre mezz'ora da quando ero uscito fuori dalla zona bagagli.
“Minchia - pensai – devo fare la denuncia di smarrimento delle valigie”. Rientrai in fretta  e mi diressi di nuovo verso la zona bagagli/dogana.
Andai oltre la dogana e mi guardai in giro per cercare l’ufficio dove fare la denuncia.
Un paio di militari che indossavano una divisa verdastra della misura almeno doppia di quella giusta per loro, cosa che dava loro un aspetto assai poco marziale e molto bislacco, si avvicinarono a me con una strana camminata pigra e strascicante.
Si piazzarono a un paio di passi di distanza da me, io mi fermai e loro mi scrutarono con aria investigativa, dopo un paio di sguardi aprirono bocca e parlarono: - Mister please....esordirono in inglese, ma poi continuarono il loro dire in amarico (la lingua degli Amhara), accompagnando quello che dicevano da un gesticolar di mani degno di un siciliano originale.
Ovviamente io non capii una beata mazza di quello che mi dissero,  li guardai, provai a dire loro che parlavo solo inglese ed italiano, ma loro continuarono imperterriti a parlarmi nel loro idioma come se niente fosse.
Non capivo nulla naturalmente, però, non so come, dai loro gesti riuscii a capire che intendevano perquisirmi.
Io cercai di stare tranquillo e fermo, agitando lateralmente il dito indice della mano destra a volere dire: "no amici, qualsiasi cosa vi stia passando per la mente, sappiate che  la mia risposta è no". Accompagnavo il mio gesto con un accenno di sorriso, per quel che mi era possibile in quelle condizioni, fra l'altro un amico che era stato da quelle parti mi aveva detto che dovevo adeguarmi ai loro modi.
Ma dopo una notte insonne, passata inscatolato in un aereo stracolmo di umanità variopinta e invadente, con un atmosfera intrisa di olezzi non proprio gradevoli, in un aereo colmo di cazzate varie di ogni tipo che lo rendevano simile ad un bazar improvvisato, dopo avere verificato che le mie valigie non erano con me, dopo avere appurato che non c’era nessuno ad attendermi in quel posto del quale non sapevo una minchia, dopo essere stato fregato dal primo habesha con il quale ero entrato in contatto, un po’ d’incazzatura pesante c'era, e come se c'era.
Uno dei due militari si avvicinò a me, e fece il gesto di mettermi le mani sotto le ascelle dicendomi (credo) nel suo idioma di alzare le braccia, il mio “fuck off” fu forte e spontaneo e la spinta che gli mollai altrettanto decisa è istintiva.
“Keep those fucking hands away from me”- gli gridai spingendolo – il tipo barcollo all’indietro di un paio di passi, parve cadere ma riusci a riprendersi e a riguadagnare l'equilibrio, guardò il compagno d’armi,  che di rimando lo guardò.
I due si fissarono per un attimo  smarriti con aria incredula e rimasero di pietra. Forse non erano abituati a queste reazioni.
Immediatamente si materializzo sulla scena un terzo militare, bello, liscio, grasso e con stampata sulla faccia larga l’espressione tipica dei coglioni che si credono qualcuno.
Il nuovo arrivato però era garbato, si rivolse a me e mi disse di calmarmi, di non urlare e di farmi perquisire.
Parlava un discreto inglese, benchè molto etiopizzato. “Perché mi devono perquisire”? – gli chiesi - "Sono appena uscito da qui e devo rientrare per denunciare il mancato arrivo dei miei bagagli" - proseguii.
 Lui senza cambiare né il tono di voce né la beata espressione del viso, mi chiese se fosse la prima volta per me ad Addis. “Si” - risposi. E lui mi fece: "Tranquillo è solo una formalità" .
A questo punto alzai le braccia verso l’alto, il militare di prima, quello che aveva ricevuto la spinta, si avvicinò e mi perquisi velocemente  e superficialmente. Finita la finta perquisizione mi salutò e si allontanò insieme al suo compagno di squadretta.
Risposi al saluto e approfittai per chiedere al terzo militare, che era ancora lì, dove fosse l'ufficio bagagli smarriti, dove si facessero le denunce per le valigie smarrite. Lui senza fretta alzò una mano e con l’indice mi indicò un angolo dell’aereoporto vicino al deposito bagagli.
Ringraziai  e mi diressi verso quella che pareva più una guardiola che un ufficio.
L'ufficio era un buco di meno di due metri quadri, con una sedia alta e un altrettando alto bancone dove erano posati alla rinfusa un pò di fogli.
Dietro una vetrata africanamente sporca, con una grossa buca ovale centrale per la comunicazione tra l’avventore e  l’impiegato, sedeva una ragazza che in quel momento era intenta al telefono. 
Mi avvicinai all'ovale della guardiola per parlare, ma lei, nonostante mi avesse visto, continuava la sua conversazione telefonica, durante la quale rideva e sorrideva. Di tanto in tanto posava senza impegno i suoi immensi occhi marrone su di me. Ebbi l’impressione che quegli occhi mi toccassero. Io la guardai e sorrisi per attirare su di me la sua attenzione, ma non successe niente, lei resto tranquilla attaccata al suo cellulare e al suo chiacchierare fitto fitto. 
Fu in quel momento che cominciai a percepire vagamente l'esistenza di una delle cose alle quali ci si deve abituare da quelle parti, cioè che il ritmo delle azioni e della vita è diverso dal nostro e che la lentezza pervade il loro modo di essere.
Ad ogni buon conto, la ragazza era molto bella, non potei fare a mano di scrutarla con attenzione forse esagerata.
I suoi lineamenti erano eleganti e delicati, quasi nobili, gli occhi grandi dal taglio orientaleggiante, il colore della pelle era di un marrone scuro molto gradevole alla vista, era un marrone vellutato, le sue  labbra erano pronunciate ma non grosse, sicuramente non volgari, direi che erano perfette, aveva solo un filo leggerissimo di mascara sulle lunghe ciglia naturalmente arcuate all'indietro.
Vestiva una camicetta viola scuro, artatamente aperta sul seno scuro. I suoi capelli erano lunghi, neri, lucenti e fortemente ondulati.
Percepii immediatamente che oltre a quella bellezza che si vedeva e si toccava con gli occhi, c'era anche di più in lei, c'era qualcosa che lei emanava con grande naturalezza. La bellezza di quella ragazza era incorniciata da un senso che in occidente le donne ormai curano poco e stanno ormai dimenticando e perdendo: la femminilità.
Quella ragazza emanava odore di donna da ogni poro, ogni suo movimento era sensuale naturalmente.
Si, era molto bella quella ragazza e credo anche molto giovane. La vista di quella bellezza attenuò un pò la mia incazzatura, e fissandola come un ebete, le lasciai finire la telefonata senza protestare per il trattamento che stavo ricevendo, cosa che faccio molto di rado.
La telefonata durò oltre cinque minuti, tra risatine, sorrisi e sguardi verso di me.
Dopo aver finito e chiuso la telefonata, la ragazza mi salutò e mi chiese di cosa avessi bisogno. La morbidezza setata e carezzevole della sua voce la resero ancora più bella. In precedenza avevo visto un paio di etiopi presso l'Ambasciata etiope a Roma quando ero andato a chiedere il visto, erano carine, minute magre ed eleganti nei lineamenti ma niente di paragonabile a quella sublime visione.
Il suo inglese era di quello mono "tense", composto da pochi vocaboli incertamente pronunciati.
Ma lei lo usava con estrema disinvoltura e tranquillità, la  parlata incerta era ovviamente condita da un forte accento etiope che di certo non mi aiutava a capire quello che mi diceva, anche perchè ero ammaliato e distratto dai suoi splendidi occhi e dalla sua voce. Cominciai solo dopo un pò a capire qualcosa di quel suo stranissimo inglese, e mi venne in mente quella famosa frase che in un vecchio carosello veniva detta a Virna Lisi: "con quella bocca puoi dire tutto quello ciò che vuole".
Certo il fatto di non capire bene non era piacevole né di aiuto e un pò mi disturbava.
Ma lei sembrava non percepire affatto il mio stato d’animo e mi guardava beata senza scomporsi.
Io non riuscivo a comunicare con serenità, però piano piano mentre tentavo di capire e di farmi capire, mi andavo di nuovo  calmando.
Dopo un pò di sforzi improvvisamente cominciai a capire meglio e a farmi capire, parve che avevamo trovato per magia un intesa su un registro comune e comprensibile di comunicazione, le spiegai che non mi erano arrivate le valigie. Lei sorrise e con un discreto senso dello humor mi disse: "lo so altrimenti non sarebbe qui".
Poi mi chiese il mio luggage ticket, lo registrò, scrisse la denuncia e con calma mi passò la ricevuta della stessa, aggiungendo che potevo tornare il giorno dopo o telefonare al numero impresso sulla ricevuta. Presi quel pezzetto di carta al quale era legato il destino delle mie valigie e salutai facendo per andare.
Mentre facevo per allontanarmi lei mi chiamò, era uscita fuori dalla guardiola/ufficio. 
Guardandola per intero esclamai ad alta voce il classico: "Mamma mia". Era molto alta, indossava un paio di jeans e un paio di scarpe con un tacco quasi a spillo, le sue gambe erano un armonia della natura, le caviglie sottili e la vita era quella che doveva essere per completare il capolavoro.  "Mister - mi chiese nel suo ethio/english - Perché sei cosi stanco e nervoso"?
Mi tuffai nei suoi occhi dimentico di ogni preoccupazione e iniziai dal principio.
Gli raccontai cosa ero andato a fare lì ad Addis e tutte le disavventure che avevo avuto in quella mattinata, compreso il fatto che non sapevo cosa fare e che il primo etiope che avevo incontrato mi aveva fregato dieci euro per una carta telefonica senza credito.
Lei mi guardò e scoppiò a ridere di cuore (non esprimo la sensazione che mi provoco il suo ridere, per non far pensare ad un colpo di fulmine), poi piano piano smise  di ridere, mi guardò  dalla testa ai piedi con aria divertita, quindi infilò la mano in tasca, sfilò il suo cellulare e me lo passo dicendo:
“ You can use my mobile”. E mentre ritraeva con grazia la mano mi disse ridendo: “Relax Yene Kongiu, you are in Addis now.”
La guardai sorridente, quasi raggiante, presi il telefono, e quasi senza staccare lo sguardo dai suoi intriganti occhi, feci il numero della scuola. Dopo un paio di squilli mi rispose un’applicata di segreteria al quale chiesi di passarmi il D.S.
Dopo i convenevoli di rito, descrissi al D.S. (un tale di Roma) la mia  situazione, lui mi spiegò, scusandosi parzialmente, che il collega che doveva venire a prendermi, lo aveva dimenticato ed era andato a scuola, e che lui vedendolo arrivare gli aveva prontamente ricordato il  mio arrivo.
Concluse assicurandomi che il collega era già ripartito alla volta dell’aereoporto per venire a prendermi.
Mi disse anche la marca e il tipo di macchina che aveva il collega e di dirigermi fuori dall’aereoporto, perché il collega sarebbe stato lì a minuti.
Finii la telefonata, e restituii il telefono alla ragazza, chiedendogli se dovevo dargli qualcosa di soldi per la telefonata, lei sempre con quel tono morbido, vellutato e divertito mi fece: “No problem Mister, I’m sure you would have done the same for me”. Per la verità non era proprio questo quello che disse ma era sicuramente questo quello che voleva dire.
Uscii dalla hall per attendere il mio collega e mi accorsi ancora che il sole di Addis era veramente molto ma molto più luminoso e molto più colorato del nostro, e che la ragazza aveva ragione. Ero ad Addis.
Dopo 5 minuti arrivo il mio collega, con una enorme Toyota Prado: auto fatta solo per il mercato africano, si scusò  e mi chiese delle valige. Gli raccontai i guai di quella mattina e montai in auto.  Mi sistemai come se dovessi fare un lungo viaggio.
Uscimmo dall’aereoporto, e ci immettemmo sulla Bole Road, una delle arterie stradali più importanti di Addis, anzi la più importante.
Il traffico era lentissimo ma nessuno suonava il clacson, l’aria era nera dal fumo delle vecchissime auto, una variegatissima e colorata umanità, fatta di gente vestita normalmente, bambini, donne con neonati in mano che chiedevano l'elemosina, mendicanti vari e storpi di ogni tipo, si muoveva con lentezza esasperata sugli scassatissimi marciapiedi. 
Iniziai a guardarmi attorno, chiesi al collega perché avesse l’aria condizionata accesa, visto che non c’era caldo, lui rispose che in macchina andava sempre in giro con i finestrini alzati e l’aria condizionata accesa per non respirare il nero dell’aria di Addis.
Mentre l'auto percorreva le vie della città e il collega mi raccontava un pò di cose, io assaporavo il calore del coloratissimo sole di Addis che penetrava dai finestrini chiusi.
Guardavo fuori, l'unica strada asfaltata era quella dove stavamo viaggiando noi, le traverse erano sterrate e anche malamente, l'aria era scura di fumo, mi pareva che le persone e tutto il resto si muovessero con lentezza esasperata, mi attorcigliai su me stesso, quasi mi veniva da dormire mentre mi ritornano in mente gli occhi e le parole della ragazza addetta ai bagagli smarriti:  “Relax Yene Kongiu you’re in Addis”. E mentre le immagini di Addis scorrevano fuori dal finestrino come i fotogrammi di una pellicola e le mie palpebre si facevano sempre più pesanti uan domanda trovava la via della mia attenzione residua: "ma che significava Yene Kongiu"?

2 commenti:

  1. Complimenti per la prima parte.
    Credo pero' che dovrai continuare a scrivere Salvatore xche' tutti i lettori vorranno conoscere il seguito....

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  2. Complimenti per la prima parte.
    Credo pero' che dovrai continuare a scrivere Salvatore xche' tutti i lettori vorranno conoscere il seguito....

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