Oggi vi voglio parlare della
storia di una ragazza giovane nata e cresciuta in un mondo a noi lontano,
un
mondo che non conosciamo e che forse non vogliamo conoscere.
Una “scura”, come mio figlio,
teneramente chiamava i suoi compagni di classe, quando per un po’ frequentò la
scuola dell’infanzia di Addis.
Voglio raccontarvi la storia di
una ragazza dalle gambe di gazzella e il cuore di leone.
Una ragazza che aveva in se il
coraggio e l’orgoglio di essere e la volontà di volere e dovere essere.
Una ragazza dal viso buono e
sincero.
Oggi vi voglio parlare di una
favola, di una favola che è una storia vera, di una favola alla rovescia, che
non finisce con il classico “ e vissero tutti felici e contenti”, ma finisce in
fondo al mediterraneo in burrasca, finisce con la disperata lotta per la
sopravvivenza di una ragazza, che poteva essere e che era mia sorella, la mia
amica del cuore, la persona che non ho mai incontrato e conosciuto e che invece avrei voluto incontrare
e conoscere. Per tutto questo la storia che vi sto racontando è una favola, perché la protagonista della storia è così nobile d'animo da essere una
principessa.
Voglio parlarvi di una ragazza
nata e cresciuta nell’inferno della Somalia di oggi, nata e cresciuta
nell’inferno dentro l’inferno che è la Mogadiscio di oggi.
Voglio parlarvi di una storia di
eroica voglia di vivere, volontà di riscattarsi e riscattare, di una storia che da il
senso a molte storie che ci arrivano dal Corno d’Africa, portate a noi dai
barconi e dalle carrette del mare carichi di umanità disperata alla ricerca di
un sogno.
Quella di cui voglio parlarvi è
la storia di Samia, una storia che ci fa sentire piccoli, forse anche inutili,
certamente chiusi nel nostro ristretto mondo di egoismo e di paura dell’oggi e del
domani e di tutto quello che ci ricorda che la vita non è uguale per tutti, che ci ricorda che le nostre ansie e le nostre preoccupazioni possono sparire di fronte a certe vite.
La storia di Samia non può
lasciarci indifferenti, non può non provocare in noi un cambiamento, non può
non scavare un solco nel mare d’indifferenza nel quale affoghiamo giorno dopo
giorno.
La storia di Samia apre uno
sguardo e ci proietta verso un mondo che ha bisogno di tutti, che ha bisogno di
tutti noi che pensiamo che non possiamo lasciare che il mondo sia quello che
viviamo oggi, e che ogni giorno con i nostri piccoli e grandi gesti quotidiani,
con le nostre parole semplici, con le righe scomposte o importanti che
riusciamo a scrivere proviamo a spiegare che un mondo diverso non solo è
possibile ma deve essere.
Samia Yusuf Omar, questo è il
nome completo della ragazza che voglio farvi conoscere oggi, è la più piccola dei
sei figli di una famiglia di Mogadiscio, nata il 30 aprile del 1991.
Suo padre, Omar Yusuf, fu ucciso da un colpo di pistola al mercato di Bakara, il più grande di Mogadiscio, dove lavorava.
Suo padre, Omar Yusuf, fu ucciso da un colpo di pistola al mercato di Bakara, il più grande di Mogadiscio, dove lavorava.
Il mese dopo la morte del padre, Samia
lasciò la scuola per occuparsi dei fratelli al posto della madre che dovette
iniziare a lavorare.
Fu in quel periodo che Samia
scopri la sua passione per la corsa, che dalle parti del corno d’Africa è
vissuta fondamentalmente come strumento di riscatto personale, liberazione e di
emancipazione da una condizione sociale ed economica insostenibile per la
maggior parte dei suoi abitanti.
Ma allenarsi a Mogadiscio non era
facile per nessuno e specialmente per una ragazza.
La Somalia è una nazione senza
nazione, distrutta, inesistente, dove domina la legge del più forte, dove
dominano gli Shabaab, gruppi di terroristi legati ad Al Qaeda.
A Mogadiscio non ci sono
strutture sportive e Samia deve allenarsi correndo per strada, ma una donna,
una ragazza atleta da quelle parti non è ben vista: i somali considerano
“rovinate” le ragazze che praticano sport, ascoltano o fanno musica, e che
indossano pantaloncini.
Samia quando correva e si
allenava veniva spesso ingiuriata, minacciata e addirittura una volta fu anche
arrestata; anche se lei si allenava indossando le maniche lunghe, i pantaloni
della tuta e una sciarpa sulla testa, sotto il sole di Mogadiscio.
Nonostante tutto nel maggio del
2008, a diciassette anni, Samia riuscì a partecipare alla gara dei 100
metri ai Campionati africani di atletica leggera.
Concluse la gara in ultima
posizione, ma fu comunque chiamata quello stesso anno a rappresentare la
Somalia alle Olimpiadi di Pechino, lei e un altro atleta.
Intervistata all’arrivo a Pechino
dichiarò «Non mi importa se vinco. Ma sono felice di rappresentare il mio paese
in questo grande evento. Non credo che faccia la differenza se vinco a questi o
ai prossimi Giochi Olimpici»
Il 19 agosto Samia Yusuf
Omar corse i 200 metri, fu uno dei momenti più belli di quei Giochi.
Lei corse in seconda corsia,
accanto ad atlete celebri, ricche, vestite con gli ultimi ritrovati della
scienza nel campo degli indumenti sportivi, tutte muscoli, allenate e nutrite
per correre, Samia corse accanto a quelle che erano macchine costruite scientemente per
correre e per vincere.
Samia, invece era magra, anzi magrissima,
era una gazzella.
Indossava le scarpe che gli aveva prestato un’atleta della squadra sudanese, i pantaloncini sotto il ginocchio, la maglietta bianca lavata con la cenere, come si usa da quelle parti, che gli aveva dato la sua mamma, e poi aveva una fascia bianca in testa che suo padre gli aveva dato prima di essere ucciso.
Indossava le scarpe che gli aveva prestato un’atleta della squadra sudanese, i pantaloncini sotto il ginocchio, la maglietta bianca lavata con la cenere, come si usa da quelle parti, che gli aveva dato la sua mamma, e poi aveva una fascia bianca in testa che suo padre gli aveva dato prima di essere ucciso.
Le gambe esili, i polpacci
sottili, lo sguardo deciso di chi vuole farcela. Lei era diversa.
Samia partì assieme alle altre
atlete allo sparo dello starter, e corse con tutta la sua anima, arrivò ultima, ma la
sua corsa fu commovente, fu incoraggiata e applaudita dal pubblico dall’inizio
alla fine.
Al termine della gara
l’attenzione fu tutta per lei, fu intervistata subito dopo la vincitrice:
«Sono felice», disse; «Le persone mi hanno incoraggiato con il tifo,
è stato molto bello. Ma mi sarebbe piaciuto essere applaudita per aver
vinto, e non perché avevo bisogno di incoraggiamento. Farò del mio meglio per
non essere ultima, vincerò la prossima volta, vincerò le olimpiadi di Londra».
Ritornò in patria, pensando di potere riprendere ad allenarsi per il suo sogno: vincere le olimpiadi di Londra 2012.
Ma al suo ritorno tutto era
cambiato ed era peggio di prima; peggio di quando lei non era nessuno, peggio di prima di
quei 200 metri corsi nello Stadio Olimpico di Pechino.
Adesso lei era diventata un simbolo, il simbolo della voglia di riscatto delle ragazze e delle donne somale e per gli estremisti islamici era diventata un simbolo minaccioso, una speranza da estirpare prima che mettesse radici, il simbolo stesso del progresso e della civiltà.
Adesso lei era diventata un simbolo, il simbolo della voglia di riscatto delle ragazze e delle donne somale e per gli estremisti islamici era diventata un simbolo minaccioso, una speranza da estirpare prima che mettesse radici, il simbolo stesso del progresso e della civiltà.
Samia, fu così costretta a rifugiarsi in Etiopia sperando da li di potere raggiungere l’Europa, dove continuare a d allenarsi per le Olimpiadi di Londra 2012. Dopo due mesi, non riuscendo ad avere dal Mogadiscio nessun tipo di documento che gli riconoscesse lo status di rifugiato, Samia lasciò Addis Abeba per intraprendere assieme ad altri, quello che io considero il viaggio attraverso l'inferno: la traversata del Sudan e del deserto del Sahara, per arrivare in Libia ed imbarcarsi alla volta dell'Italia, e realizzare un sogno che dalle coste libiche puoi quasi toccare se allunghi bene una mano.
Nel frattempo, la nostra società avvezza a digerire e dimenticare tutto, si dimenticò anche dell’esistenza della gazzella nera
che era arrivata ultima nei 200 metri di Pechino e che aveva promesso di vincere le Olimpiadi di Londra. Di Samia si perse presto la memoria.
Fu un grande atleta di origine somala che alle olimpiadi di Londra la ricordò e diede lo spunto a tanti scrittori e giornalisti per riprendere a capire cosa fosse successo alla ragazziana di Mogadiscio.
Oggi possiamo dire che la sua
storia la conosciamo grazie a questo grande atleta somalo del passato: Abdi
Bile, medaglia d’oro nei 1500 metri ai Mondiali di Roma del 1987, che
dopo il
trionfo di Mo Farah (atleta britannico di origine somala) alle Olimpiadi di
Londra, davanti a una platea riunita a Mogadiscio per ascoltare i membri del
Comitato olimpico nazionale, disse: «Siamo felici per Mo, è il nostro orgoglio,
ma non dimentichiamo Samia. Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar? La
ragazza è morta… morta per raggiungere l’Occidente. Aveva preso una carretta
del mare che dalla Libia l’avrebbe dovuta portare in Italia. Non ce l’ha fatta.
Era un’atleta bravissima. Una splendida ragazza».
Ma io mi fermo qui, non voglio
più raccontarvela io questa storia, voglio farvela raccontare da uno bravo: Giuseppe Catozzella e dal suo libro
che vi consiglio di leggere: “Non dirmi che hai paura”.
“Non dirmi che hai paura”, era
quello che il papà di Samia gli diceva quando voleva incoraggiarla a fare qualcosa,
e Samia crebbe senza paura, crebbe portando in se un grande cuore di leone
africano dentro un esile fisico di gazzella.
Cuore che gli permise di superare
tante delle sfide che la sua breve e triste vita gli impose, lei lottò, si
battè ogni giorno della sua esistenza con la forza che i suoi anni pieni di
speranza gli dava.
Samia non vinse mai una corsa
importante, ma vinse tante sfide e andava avanti, riuscì a superare ostacoli che nessuno di noi avrebbe mai
saputo superare: supero tutti gli ostacoli tranne uno.
Il libro mi ha lasciato dentro un
senso di vuoto, di impotenza, di tristezza: ma mi piace pensare che Samia sia
stata sempre felice durante la sua vita, sempre felice di avere lanciato in avanti il suo cuore di
leone e di averlo rincorso con le sue gambe di gazzella.
Io che ho visto e ho vissuto con
gli “scuri”, rimpiango solo di non avergli potuto stringere la mano mentre il
mare nero dell’anima occidentale gli impediva di respirare e gli riempiva i
polmoni di sale e dirgli: “brava Samia non hai mai avuto paura”. Io non
piangerò.
Ciao Samia.
Nessun commento:
Posta un commento